La sceneggiatrice di “Start-Up”, che risponde al nome di Park Hye Ryun, nome noto nella produzione di film e serie tv (tra cui l’avvincente “While you were sleeping”, 2017 e l’indimenticabile intreccio di “I hear your voice”, 2013), decide di trattare un argomento assai insolito anche per lei, ma decisamente più edulcorato e leggero rispetto a precedenti narrazioni. Un connubio di stili narrativi dissimili, insomma, che ben si amalgamano durante la visione dei sedici episodi.
A dire il vero è la prima puntata a essere la parte più densamente drammatica e triste, ma per quanto sia dura da digerire ne rappresenta l’introduzione a tutto il paradigma narrativo che si dipana nei successivi episodi (e la durata è quella di un lungometraggio). Proprio nel primo episodio l’autrice dà subito un pugno dritto allo stomaco degli spettatori narrando l’epopea del padre della protagonista Seo Dal-Mi. Trattasi di una vicenda che nell’epilogo vi lascerà senza fiato e vi ricorderà di quanto sono utili i fazzoletti di carta!
Ma badate bene, non confondete questa storia con l’omonimo film del 2019, perché ci si muove su terreni narratologici molto differenti. Questa serie televisiva propone una love-story un po’ diversa dal solito e va ad attingere a piene mani nelle invenzioni degli ultimi anni nonché alla tradizione teatrale ottocentesca. Di che parlo?
Partiamo prima col capire di che si narra. La vicenda ruota intorno all’esistenza alquanto atipica della giovane Seo Dal-Mi (la meravigliosa Suzy, già cantante e successivamente star di alcuni drama tra cui il succitato del 2017 e l’acclamato “Vagabond”, 2019) che punta a cambiare il suo destino cercando fortuna in una competizione per start-up di lungimiranti inventori su cui le grandi aziende asiatiche potranno investire.
Gli ultimi dieci anni li ha spesi ignorando tutti i pretendenti poiché invaghita del suo primo e unico amore: un “amico di penna” dal nome di Nam Do San che però non ha mai incontrato (!) e di cui non sa manco che faccia abbia. Bene, capirete che già questo incipit un po’ stride col mondo reale, ma al di là dell’apprezzamento della vena sognatrice e poetica dell’autrice diviene interessante scoprire chi scriveva quelle lettere! Ebbene sì, il mandante era un orfano che tutto avrebbe voluto fare fuorché redigere tali missive e si firmava col nome di un ragazzino di cui aveva letto sui quotidiani (il succitato Nam Do San). Il perché scriveva tali lettere non posso spiegarlo altrimenti rovinerei alcuni passaggi salienti della trama (ma il tutto viene spiegato nei primi due episodi, quindi avrete tempo e modo di capire se il k-drama fa per voi in breve tempo).
Proprio da quella bislacca corrispondenza, attuata in periodi lontani, prende piede l’ensemble di vicende assai stravaganti che vedrà un investitore di successo ingaggiare il ragazzino di allora (Nam Do San, appunto) ch’è divenuto un geek apparentemente senza alcun futuro che passa le sue giornate tra quattro mura in compagnia di due amici che sembrano essersi fermati ai dodici anni di età (e questo, credetemi, alla lunga è persino fastidioso). Tutta questa folle corsa dell’investitore, che strizza l’occhio a un’utopistica visione del mondo, sembrerebbe sia fatta per non deludere le aspettative di Dal-Mi, ma soprattutto per fare una sorta di regalo alla nonna della protagonista (che avrà un ruolo cruciale per tutta la serie).
In questa chimerica situazione spunta fuori anche l’ombra del Cyrano de Bergerac che sembra accompagnare alcuni momenti degli incontri tra la protagonista e il suo primo (?) amore Nam Do San (interpretato da Nam Joo Hyuk, ex modello e giocatore di basket, nonché ormai attore in diverse produzioni). Ma le citazioni si sprecano e l’autrice prende spunto dalle molteplici invenzioni nate per lo più in terra americana dai geni ingaggiati da Google, menzionata anch’essa in diverse occasioni. Tutto questo intreccio narrativo si sviluppa all’interno di una sorta di Silicon Valley coreana a nome SandBox che, per inciso, non esiste, ma è una realtà talmente ben supportata a livello di scrittura che per un attimo ho pensato fosse persino reale.
L’aspetto visivo è invece qualcosa di preponderante: regista e direttore della fotografia curano maniacalmente quasi tutte le inquadrature sino a farle apparire persino magiche, pregne di colori con atmosfere indimenticabili. Alcuni momenti vi rimarranno impressi nella memoria come quadri di un’epoca ormai dimenticata.
“Start-Up” è sicuramente un’opera potenzialmente evocativa e unica, ma talvolta scivola su aspetti un po’ ingenui e dal sapore adolescenziale. Laddove ci si fermi per qualche istante a riflettere sulla veridicità di una trama simile allora tutto decade, ma il bello sta’ proprio lì nell’immergersi sino in fondo in un oceano di sensazioni uniche e stimolanti.
Se volete dunque sognare a occhi aperti e gustarvi un k-drama dalle tinte colorate e dai contenuti che vi abbracceranno cuore e anima, allora “Start-Up” potrebbe fare al caso vostro.
Come al solito, vi auguro “buona visione”.