[RECENSIONE] TIME TO HUNT (NETFLIX)

Al giovane regista Yoon Sung Hyun è stata data un’ottima opportunità: dirigere un lungometraggio davvero notevole e pregno di un certo coraggio stilistico. A 37 anni compiuti gira una pellicola d’intrattenimento che tiene letteralmente col fiato sospeso dall’inizio alla fine, merito anche della sua sceneggiatura che racconta una rapina realizzata in una Corea irriconoscibile. E se il plot, che tratta una rapina di cui ne abbiamo viste centinaia di versioni al cinema riesce a centrare l’obiettivo, allora sono certo che il giovane regista avrà nuovi ingaggi nel prossimo futuro. Il film (di cui abbiamo già parlato su Mugunghwa Dream) è stato selezionato al 70° Festival di Berlino, ma è giunto direttamente in streaming grazie alla prolifica piattaforma Netflix che investe sempre più tempo, denaro e spazio nelle produzioni asiatiche.

La storia si svolge in un futuro non troppo lontano e la vicenda si muove all’interno delle strade misere e semi deserte di una città sud coreana. Crollata l’economia nazionale tutto (o quasi) si regge sull’economia spiccia delle poche attività rimaste aperte, ma gli scambi commerciali si fanno solo con la valuta in dollari americani.

Jun Seok, appena uscito di galera, viene prelevato da due suoi vecchi compari e propone loro di fare un ultimo colpo al fine di sistemarsi e partire alla volta di un luogo paradisiaco simile alle Hawaii. Sulla carta tutto sembra fattibile e nonostante le prime perplessità, i due decidono di aiutarlo. Ma, come nelle peggiori trame hard-boiled, la rapina viene fatta ai danni di una sala da gioco d’azzardo illegale che, si sa, è una di quelle scelte che ti portano a una fine tragica. Tuttavia, per quanto scontato sia lo story concept, il valore aggiunto di questa pellicola è l’ansia crescente che si ha dal colpo in poi. La caccia viene aperta e i tre ragazzi scopriranno, a loro spese, quanto sia stato stupido prendere troppo sotto gamba il loro furto.

Ma chi li segue?

Un tremendo sicario che sembra più un “T-800” che insegue Sarah Connor ai tempi di Terminator che un gangster coreano, ma l’arco narrativo drammatico si dipana nel migliore dei modi creando il giusto feeling empatico coi protagonisti dell’opera.

La regia è molto pignola e propone ai fruitori scelte stilistiche che riportano alla mente cineasti visionari statunitensi degli anni ’70 e ’80. Le inquadrature sono sempre molto bilanciate seguendo alla perfezione la grammatica cinematografica. La fotografia arricchisce ancora di più la storia poiché è sempre attenta nel distinguere le varie fasi dell’arco narrativo suddividendo gli atti con colori prestabiliti a priori. Ogni ambiente ha dunque una sua luce caratteristica nonché un proprio tono, creando atmosfere dense di thrilling senza mai rendere noiosa la vicenda. Solo gli ambienti familiari tendono a rimanere naturali dando spazio alla luce diurna in maniera pacata e misurata, ma per tutte le altre location lo spazio visivo è permeato da una colorimetria assai studiata: grigia cupa negli ambienti esterni, gialla nei locali dove si beve, arancione nella sala da gioco, verde/grigio nella scena all’interno dell’ospedale, per non parlare di un rosso straripante che dona allo spettatore una serie di quadri in movimento intrisi di angoscia.

Certo, non è un film per tutti, trattasi più di un tributo al cinema di genere senza dar troppo peso ad altre sotto-trame e ci riesce molto bene per quasi tutta la durata del film. Forse alcuni passaggi sono “tirati per i capelli”, ma certamente la fuga dal sicario è ben costruita. I punti negativi? Sicuramente una sparatoria all’interno di un ospedale che appare sempre deserto non è decisamente credibile, così come un finale non propriamente brillante che lascia un filino perplessi.

Non si urla al miracolo attoriale né al capolavoro da festival (eppure…), ma è certamente una pellicola che andrebbe vista per assaporare anche quella tipologia di film d’azione Made in Hong Kong che spopolava tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90.

Nel cast figura l’ormai celebre attore Choi Woo Shik (conosciuto ai più per la sua presenza in “Parasite”), ma anche il noto volto cine-televisivo Lee Je Hoon che ha alle sue spalle una già brillante carriera attoriale. Nel ruolo del cattivo inseguitore troviamo Park Hae Soo che ce la mette tutta per assomigliare a un antagonista d’antan.

Ma la vera domanda da porsi nell’epilogo è: ci sarà un seguito o starà tutto all’immaginazione dello spettatore?

Buona visione.

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    Articolo di: Marco Paracchini

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