Ritornare a casa è uno dei quei momenti che spesso vengono associati con la felicità, il calore della famiglia, l’affetto. Ma se il ritorno indicasse il ritornare verso un luogo, in realtà, sconosciuto?
The Return di Malene Choi dipinge lo smarrimento, il senso di insicurezza e la crisi di identità di due ragazzi che ritornano al paese natio, un luogo però a loro sconosciuto. Karoline e Thomas sono di origine coreana ma adottati in Danimarca. Parlano danese e inglese, non sanno il coreano e si sentono stranieri nel paese che li ha visti nascere. Ed è questo il loro ritorno, il ritorno in Corea che per brevi istanti li ha accolti nei primi momenti della loro vita. Vogliono ritrovare la loro famiglia biologica, ma questa ricerca è una ricerca della loro stessa identità e del loro passato. Un viaggio in Corea che cambierà sempre il modo in cui hanno vissuto. La regista, lei stessa coreana adottata in Danimarca, in The Return rende in modo veritiero questa sensazione di smarrimento, le difficoltà nell’ottenere informazioni, il senso di isolamento e la lotta interiore per determinare il proprio essere. Un film-documentario da vedere per cercare di comprendere la vita di questi ragazzi e ragazze adottati, di ciò che ricercano al loro “ritorno”, dei loro desideri e del cambiamento nella loro vita.
The Return ha anche vinto il premio Special Jury Prize al Jeonju International Film Festival 2018 e Mugunghwa Dream ha intervistato Malene Choi a pochi giorni dalla vincita.
Per quale motivo hai deciso di realizzare questo film? Inoltre, che cosa vuoi mostrare al pubblico?
La mia intenzione con questo film è di ritrarre come il viaggio di ritorno nel paese da cui provieni
sarà un viaggio dal quale non tornerai mai completamente, poiché una parte di te resterà comunque in quel luogo. Inoltre, le domande che si avevano prima di questo viaggio potrebbero non avere mai risposta, e c’è la possibilità che altre domande emergano. Voglio mostrare con la mia testimonianza che il primo viaggio verso la nostra patria è un viaggio molto più inquietante di quanto viene prima descritto. Spesso la storia della nostra vita, della perdita e della nostalgia viene raccontata da altri, bianchi, adulti occidentali. Volevo raccontare una storia da una prospettiva interiore che fosse più veritiera della mia esperienza e di quello che è successo nella vita di altre persone adottate che ho incontrato.
The Return racconta la storia di Karoline e Thomas ma, in che misura la esperienza personale ha influenzato il film e in quali parti possiamo vedere questa influenza?
Ho fatto lo stesso viaggio di ritorno, ho cercato di trovare la mia famiglia di origine e ho avuto un incontro simile alla Holt Adoption Agency, ero confusa e frustrata per il modo rigido con cui il manager dei servizi di post-adozione mi ha trattato, e ho avuto la sensazione che anche a me avessero mentito. Quella era una parte che volevo davvero avere nel film, così il pubblico avrebbe potuto sperimentare come avviene un vero incontro. Volevo anche mostrare Koroot alle persone, questo luogo unico dove le persone adottate che vengono da tutto il mondo possono rimanere e riconnettersi con la nostra storia coreana e conoscersi a vicenda. Era un posto in cui io per la prima volta nella mia vita ho parlato con altri ragazzi adottati su come sia stato essere adottati in Danimarca.
Dalla spiegazione che mi hai dato, noto che ci sono molti elementi personali in questo film. Sembra davvero realistico e potrebbe anche essere confuso con un vero documentario. Tuttavia è più un ibrido tra finzione e documentario. Sono le storie dei due protagonisti reali?
Abbiamo sceneggiato le storie dei due protagonisti per ottenere una narrazione, ma sono stati scritturati per recitare in modo più possibile simile a chi sono nella vita reale, utilizzando anche le proprie esperienze, di cui parlano nella scena della cena. Ho cercato di proteggerli usando una struttura fittizia, così da assumermi la piena responsabilità riguardi a tutto ciò che dicono e fanno, perché ciò che è davvero difficile per gli adottati è che alcune delle critiche mosse sono rivolte ad alcune delle persone più importanti della nostra vita, i nostri genitori adottivi.
Per quanto riguarda la ragione del perché ho dovuto fare un ibrido, per molti anni ho cercato di seguire altri protagonisti e di girare il film come documentario, ma dato che le persone prendevano l’aereo e restavano a Koroot solo poche settimane per poi ripartire e forse non tornare mai più, cercando improvvisamente i loro genitori biologici, è stato difficile trovare una storia con un inizio, una parte centrale e una fine. Era come se non ci fosse un inizio o una fine, solo qualcosa di instabile nel mezzo.
Ho notato che nel film i nomi degli attori sono usati per i personaggi interpretano, facendo sparire ancora di più la soglia tra realtà e finzione.
Volevo che anche il pubblico dubitasse che fosse reale o di fantasia, perché gran parte della nostra storia è composta anche da altri, quindi nomi, luoghi, date potrebbero essere sbagliati e non saremo mai in grado di scoprirlo.
A Koroot, la protagonista incontra altri adottati che condividono le loro storie, queste storie, invece, sono reali? Sono particolarmente interessata a Joo Young Choi, filmata mentre mostrava a Karoline le sue opere d’arte e il suo video musicale.
Tutti gli altri ragazzi adottati a Koroot con cui Thomas e Karoline parlano sono personaggi reali, Joo Young, Hojung, Rachel e Jace. Era mia intenzione fin dall’inizio di raccontare una storia collettiva sull’essere adottato. Joo Young è stata un’artista che ho incontrato prima di iniziare a girare il film e ho trovato interessante il fatto che, facendo arte sull’adozione transnazionale, puoi creare un luogo immaginario in cui puoi guarire te stesso o ottenere una nuova visione, prospettiva sulle cose che ci circondano.
Che cosa significa per te e per Karoline questa ricerca di identità, questo pezzo mancante nella tua vita?
Immagino che questo significhi che stiamo cercando di affrontare il nostro passato traumatico, che riconosciamo di avere cicatrici e lividi perché siamo stati portati fuori dal nostro ambiente naturale e siamo stati mandati dall’altra parte del pianeta. E solo ponendo domande siamo in una posizione proattiva, anche se sappiamo che potremmo non ricevere risposta a tutte quante. Penso che si debba fare i conti con le tue condizioni di vita e in qualche modo ottenere pace con tutte le cose sconosciute e dolorose del tuo passato.
All’inizio del film, quando compare il titolo, vediamo una donna, che ancora non conosciamo, camminare, forse con difficoltà, nel fango. Il luogo mi ha immediatamente fatto ricordare Incheon e le sue spiagge, piene di fango, dove a volte affondano i piedi. Mentre la storia si svolge, Karoline scopre che è nata a Incheon ed è stata presa da una signora in affidamento nell’isolotto di Modo. Ed è lì dove decide di bagnare i suoi piedi in questo mare di fango. Cosa rappresenta e simboleggia questo “mare di fango”?
Sì, è Karoline all’inizio che esce nel fango e si trova sull’isola di Modo dove è stata allevata una volta. La distesa di fango simboleggia un paesaggio che non è né danese o coreano, ma una natura astratta che è una specie di terzo spazio, al di fuori del mondo conosciuto.
Thomas riesce a trovare sua madre e la incontra, sotto lo sguardo di una silenziosa Karoline, ma, al contrario del ragazzo, lei non riesce a trovare la sua madre naturale così come non c’è, a quanto pare, nessuna informazione su di lei. La pellicola termina con questa ricerca irrisolta. Nella vita reale, l’attrice Karoline Sofie Lee ha trovato la sua famiglia biologica?
Nella vita reale Karoline non riesce a trovare i suoi genitori biologici, inoltre il momento in cui ha portato il suo vero file di adozione e chiede maggiori informazioni a Holt è reale.
Passando a una domanda più “tecnica”, non c’è musica extra-diegetica nel film, solo il suoni, rumori e chiacchiere che appartengono alla vita quotidiana sono registrati tranne nei momenti in cui Karoline cammina, o vaga, intorno a Seoul, dove si sposta da un posto all’altro. La musica è extra diegetico e porta chi lo ascolta in una sorta di mondo parallelo, aiutato anche dal montaggio veloce di brevi shot (metro, strade ecc.). L’effetto è l’allontanamento dalla realtà, sia fisicamente sia mentalmente. Potresti darci delle informazioni a riguardo?
Il suono è in realtà più realistico per affermare che tutto ciò che vedi è reale o con una musica diegetica extra che viene messa in risalto e che spinge il pubblico in giro da un posto all’altro in questo nuovo mondo sconosciuto e sconosciuto. Un posto che ha un altro ritmo e sembra che il tempo stia andando troppo veloce. E poiché non parliamo in coreano, possiamo a malapena sopravvivere lì, quindi la musica aggiunge a questa sensazione alienata.
Ultima domanda. Voglio congratularmi con te perché The Return ha appena vinto lo Special Jury Prize alla competizione del Jeonju International Film Festival 2018. Come ti senti al riguardo? Che cosa questo premio rappresenta per te, soprattutto perché è stato vinto in un festival in Corea del Sud?
È bello vincere premi ed essere riconosciuti soprattutto in Corea del Sud, dove voglio che il film sia visto da quante più persone possibili, quindi spero che possa suscitare consapevolezza. Perché mi piacerebbe davvero mettere l’adozione transnazionale sulla mappa, perché vorrei che fosse qualcosa con cui si possa avere a che fare, relazionarsi e parlarne nella società coreana. In questo caso voglio cambiare il sistema in modo che le madri single non sposate abbiano migliori opportunità di mantenere i propri figli e di essere sostenute meglio economicamente e socialmente. Perché l’adozione è un processo sociale molto più complesso, quindi per alcuni di noi è un peso troppo grande con cui vivere.
ENGLISH VERSION
Coming back home is one of those moments that are often associated with happiness, the warmth of the family, the affection. But if the return indicated the return to a place, in reality, unknown?
The Return by Malene Choi paints the loss, the sense of insecurity and the identity crisis of two young adults who return to their hometown, a place unknown to them. Karoline and Thomas are of Korean origin but adopted in Denmark. They speak Danish and English, they do not know Korean and they feel foreigners in the country that saw them born. And this is their return, the return to Korea that for short moments welcomed them in the first moments of their lives. They want to find their biological family, but this research is a search for their identity and their past. A trip to Korea that will always change the way they lived. The director, she herself adopted in Denmark, in The Return truthfully makes this feeling of loss, the difficulties in obtaining information, the sense of isolation and the inner struggle to determine one’s being. A documentary film to be seen to try to understand the life of these adopted boys and girls, of what they seek after their “return”, their desires and change in their lives.
The Return also won the Special Jury Prize at the Jeonju International Film Festival 2018 and Mugunghwa Dream interviewed Malene Choi just few days after the win.
Which was your motivation to make this film? And what do you want to show the audience?
My intention with this film is to portray how traveling back to the country you come from will be a journey that you never completely return from, since a part of you will stay there. Also, the questions you had prior to this travel might never be answered, but instead more questions emerge. That the first trip back to our motherland is a far more disturbing journey that I have seen described before. Often is the story of our life, loss and longing being told by others, white, western adults. And I wanted to tell a story from an inside perspective that was more truthful to my own experience and what I have seen unfold in other adoptees life’s that I have met.
The Return tells the story of Karoline and Thomas but, in which extent had your personal experience influenced the film and in which parts can we see it?
I’ve had been on the same travel back, trying to find my original family and had a similar meeting at Holt Adoption Agency, being confused and frustrated over the rigid way the manager from the post adoption services treated me, and I got the feeling that I was lied too. That was a part that I really wanted to have in the film, so the audience could experience how a real meeting take place. I also wanted to show Koroot to people, this unique place that adoptees from all over the world can stay and reconnect with our Korean history and get to know each other. It was a place where I for the first time in my life talked to other adoptees about how It’s has been to be adopted to Denmark.
In addition, the film seems really realistic that can also be confused with a pure documentary. However, is more a hybrid between fiction and documentary. Are the stories of the two protagonists real?
We scripted the stories of the two protagonists to get a narrative, but they are casted to play as close to who they are in real life and they would also use their own backgrounds that they talk about in the dinner scene. I tried to protect them by using a fictional framework so I would take response for everything they are saying and doing, because what is so difficult for adoptees is that some of our criticism is pointed at some of the most important people in our life’s, our adoptive parents.
Why I had to make a hybrid was because that I tried to follow other protagonists and shoot the film as a documentary for many years, but because people would fly in and stay at Koroot only a few weeks and then fly out and maybe never return, abruptly search for their biological parents, it was hard to find a story with a beginning, middle and end. It was like there was no beginning or ends, just something unsettled in between.
I noticed that in the film the names of the actors are used for the characters they play, making the threshold between reality and fiction disappear even more.
I wanted the audience also to be in doubt whether it was real or fiction, because a great part of our history is also made up by others, so names, places, dates could be wrong and some we will never find out.
At Koroot, the protagonist meets other adoptees who share their own stories, are these real? I was particularly interested about Joo Young Choi as she showed Karoline her art works and a music video.
All the other adoptees at Koroot that Thomas and Karoline talk with are real figures, Joo Young, Hojung, Rachel and Jace. It was my intention from the beginning to tell a collective story of being adopted. Joo Young she was an artist that I met before we started to shoot the film and I found her interesting that by doing art about transnational adoption you can create an imaginary place where you can sort of heal yourself or get a new insight, perspective upon things.
What does it mean for you and for Karoline this search of identity and missing piece in your life?
I guess that it means that we are trying to deal with our traumatic past, that we acknowledge that we have got scars and bruises from being taken out of our natural environment and moved on to the other side of the planet. And just by asking questions are we in a proactive position even that we know that we might not get all of them answered. I think that it has to do we getting to terms with your life conditions and somehow get in peace with all the unknown and painful things in your past.
At the beginning of the film, when the title appears, we see a woman (who we still do not know) walking, perhaps with difficulty, in the mud. The place immediately remembered me of Incheon and its beaches, full of mud, where sometimes your feet sink. As the story unfolds, Karoline discovers that she was born (correct me if I am wrong) in Incheon and was taken by a foster mother in the islet of Modo. And it is there where she decides to soak her feet in this sea of mud. What does this ‘sea of mud’ represent and symbolize to her?
Yes, it’s Karoline in the beginning going out in the mud land and it’s on Modo Island where she once was raised. The mud land symbolizes a landscape that’s is nor Danish or Korean but some abstract nature that is kind of a third space, outside the known world.
Thomas manages to find his mother and met her, under the gaze of a silent Karoline, but the latter could not find her birth mother as there are, apparently, no information about her. The film ends with this quest unresolved. In real life, has the actress Karoline Sofie Lee found her birth family?
In real life Karoline can’t find her biological parents, it’s a real scene at Holt where she had brought her own real adoption file and ask for more information.
Switching to a more ‘technical’ question, there is no extra diegetic music in the film, only the sounds, noises and chats which belong to everyday life are recorded a part of the moments where Karoline walks, or wanders, around Seoul, where she moves from a place to another. The music is extra diegetic and brings those who listen to it in a kind of parallel world, helped also by the fast edit of short shots of places (metro, streets etc.). The effect is the estrangement from reality, both physically and mentally…Could you comment it?
The sound is eighter realistic to state that everything what you see is real or with extra diegetic music that is put on top and sort of drives the audience around from place to place in this new strange and unknown world. A place that’s got another pace and the time feels like is going too fast. And because we don’t speak Korean we can barely survive there, so the music adds to this feeling alienated.
Last question. I want to congratulate to you because The Return has just won the Special Jury Prize in the competition of Jeonju International Film Festival 2018. How do you feel about it? What does this prize represent to you, especially since it is won at a festival in South Korea?
It’s great to win prizes to be recognized especially in South Korea, where I want the film to be seen by as many people as possible, so I hope that it can raise some awareness. Because I would really like to put transnational adoption on the map, to be something that you deal with and talk about in the Korean society. In this case I want to change the system so unwed single mothers would have better opportunities to keep their children and be supported better economically and social. Because being adopted is a far more complex social process then for some of us is too big a burden to live with.