TITOLO ORIGINALE: 스톱
REGISTA: Kim Ki Duk
CAST: Tsubasa Nakae, Natsuko Hori, Hiromitsu Takeda
VOTO: 5
TRAMA: “Le conseguenze fisiche e soprattutto psichiche del disastro di Fukushima. Miki e Sabu sono una giovane coppia esposta alle radiazioni e subito evacuata a Tokyo. Miki scopre di essere incinta. Cosa fare del bambino? Tenerlo con rischio di malformazioni o abortire? Sofferenza, dolore, rabbia, violenza. Miki e Sabu si allontanano sempre di più, ognuno affronta la situazione a modo suo, ognuno si perde nelle proprie ossessioni.” _ CinmAAAL
RECENSIONE:
“È tutta colpa dell’elettricità“
Ero molto speranzosa per questo film dopo la delusione di One on One speravo davvero che un tema e una location totalmente diversi dal solito potessero ridare linfa vitale a Kim Ki Duk sempre più fermo in quel suo limbo di rabbia contro il mondo. Le mie speranze, però, sono state vanificate pochi minuti dopo l’inizio del film, la regia documentaristica a Kim Ki Duk non s’addice, ne era stata una prova anche ‘Arirang’, e soprattutto il racconto perde quasi da subito il focus per poi riprenderlo a tratti in tutto il film.
In questo film il punto focale si sposta dalla difficile decisione di una coppia di tenere o meno il figlio che stanno aspettando ad un’accusa sociale sull’uso del nucleare. Se fosse stato trattato con meno follia sarebbe anche riuscito perché l’idea di base era ottima, partire dal soggetto singolo per arrivare al problema relativo alla comunità è quasi sempre un buon stratagemma, sfortunatamente però, come sta succedendo sempre più spesso nella cinematografia del regista l’uso gratuito della violenza e l’inserimento di inquietanti figure governative rompono una narrazione che fatica ad andare avanti, oltre all’uomo che vuole spingere la giovane donna ad abortire troviamo un’altra figura totalmente fuori contesto, un uomo che entra in contatto con il protagonista maschile il quale più passa il tempo più perde il senso della realtà agendo spesso in maniera totalmente folle. L’accusa allo sfruttamento dell’energia nucleare più che essere raccontata esaspera lo spettatore che guarda con insofferenza le gesta del protagonista senza comprenderle. Registicamente si nota quanto sia totalmente low budget, sia per l’uso della camera a mano che per il montaggio grossolano, la lavorazione del film tra riprese e post-produzione è durata poco più di due settimane e, a parte alcune scene che sembrano prese e scopiazzate dai suoi film precedenti, e l’immancabile presenza del primo piano del Buddha, il film non ha nulla a che vedere con Kim Ki Duk che conosciamo, il suo uscire dagli schemi sta esasperando la sua cinematografia e rendendo scettico chiunque prima lo apprezzasse, compresa la sottoscritta.