Buongiorno, oggi voglio cambiare registro rispetto al solito, parladovi di un film decisamente meno leggero e più introspettivo
TITOLO ORIGINALE: 밀양
REGISTA: Lee Chan Dong
TRAMA:
Shin-ae, giovane vedova, si trasferisce, insieme al figlio Jun, da Seoul a Milyang (밀양) nel paese natale del defunto marito; qui cercherà di trovare una sua identità; ma proprio mentre tutto sembrava tranquillo un’altra tragedia scuote di nuovo la vita della giovane donna.
VOTO: 8,5
L’uso della camera è netto e lineare, la musica è minima e accompagna lo spettatore senza distrarlo.
Darei un 10 pieno agli attori Song Kang Ho e Jeon Doyeon per i loro personaggi.
CRITICA e COMMENTO:
Il film racconta di come Shin-ae (Jeon Doyeon) cerchi di reagire al dolore, inizialmente trasferendosi in un’altra città dopo la morte del marito e successivamente rintanandosi nella religione, dopo la perdita del figlio.
Ma andiamo per ordine, Shin-ae – insieme al figlio Jun- si trasferisce nella cittadina di Milyang, città natale del defunto marito, per trovare la pace dopo la prematura scomparsa del suo compagno e, forse per cercare di non cancellarne il ricordo; qui inizia una nuova vita, insegna pianoforte e fa nuove amicizie, prima fra tutte quella con Kim Jong Chan ( Song Kang Ho), un uomo molto solo, il classico eterno ragazzotto di paese, che anche a 39 anni non pensa alla famiglia ma a stare con gli amici e con la costante presenza della madre che lo chiama per ogni futile motivo (e poi dicono dei bamboccioni italiani eh?!).
Le amicizie, o come meglio dire, conoscenze, di Shin-ae non si limitano a Jeon Chan ma anche alla coppia di farmacisti che ha il negozio proprio difronte alla sua scuola di pianoforte; la coppia è molto religiosa e spesso la moglie cerca di convincere Shin-ae a credere in Dio e nei Suoi insegnamenti, incontrando inizialmente la diffidenza della donna essendo lei atea.
Quando la vita di Shin-ae sembrava tranquilla e senza particolari preoccupazione, Jun, viene rapito lasciando la giovane madre disperata e disposta a tutto pur di salvare il figlio; sfortunatamente tutti gli sforzi della donna vengono vanificati quando viene trovato il corpo senza vita del bambino; da qui, possiamo dire che inizia un nuovo film, molto più introspettivo.
Qui il film si apre non solo al mero racconto, ma diventa un vero e proprio bacino di domande; dalla scomparsa di Jun, infatti, lo spettatore inizia a chiedersi “cosa farei io al posto della protagonista?” fino al ritrovamento del corpo dove la storia cambia nuovamente di ritmo narrativo.
Shin-ae inizia un processo di analisi introspettiva, la vediamo assistere al funerale del figlio quasi alienata dal resto del mondo, tanto che, quando la suocera l’aggredisce lei rimane inerme, davanti alle persone che guardano la scena con distacco; solo Jeon Chan va in sua difesa.
La vita di Shin-ae in quel momento è vuota, si sente sola e abbandonata ed è lì che le sue certezze crollano, si trova per caso davanti a una chiesa e decide di entrarci.
Finalmente si sente libera, libera di poter piangere e gridare la sua sofferenza, qui lo spettatore sente di nuovo di porsi l’ennesima domanda, che in realtà è la domanda che io personalmente mi faccio da molti anni “può la religione aiutare a liberare dal dolore o è solo una scappatoia?”; com’è possibile che una donna atea decida di dedicarsi anima e corpo a Dio e alla sua comunità? Le servirà veramente? Queste sono le domande che ci si pone durante il film, Shin-ae infatti, dopo essere stata in chiesa sente che solo la religione può aiutarla a soffrire meno, inizia così a partecipare a tutti gli incontri di preghiera e inizia a frequentare le donne della parrocchia; quello che si nota però è la falsità degli sguardi della donna quando è in compagnia di altre persone, partecipa alle discussioni passivamente e ride in maniera forzata, lo spettatore percepisce il grande disagio che la donna continua a portarsi dentro.
L’ennesimo scossone nella vita di Shin-ae – e nella trama del film- lo abbiamo quando la donna decide di andare il carcere a trovare l’assassino del figlio “Dio insegna che dobbiamo perdonare chi ci ha fatto del male”, ma dopo l’incontro la donna si sente ancora più vuota e persa, perché anche l’assassino di Jun le confessa che in carcere ha trovato la fede e che a dimostrazione che Dio l’ha perdonato lei è andata trovarlo; quelle parole creano in lei un terremoto emotivo “com’è possibile che Dio abbia già perdonato l’assassino di un bambino innocente?”, le certezze della donna crollano per l’ennesima volta, la sua psicologia già molto precaria, crolla tanto da farla andare contro i Comandamenti Biblici “non rubare” “non desiderare la donna (in questo caso, l’uomo) d’altri” e ancora peggio tentare il suicidio.
Arrivata al punto di non ritorno viene ricoverata in un ospedale psichiatrico; abbiamo uno sbalzo temporale di alcuni mesi, lo spettatore nota che il turbamento della donna non è mutato nel tempo, il suo sguardo è ancora perso nel vuoto come se la donna stessa fosse stata svuotata da tutto ma allo stesso tempo sia ancora piena di dolore interiore.
In tutto questo tempo solo una persona le è rimasta realmente accanto, non sto parlando delle donne della comunità cristiana o del fratello (che vediamo in sole tre scene) ma di Jeong Chan, l’uomo infatti nutre per Shin-ae un sentimento che supera la semplice amicizia ma che non sfocia mai nel vero amore, molto probabilmente perché la donna non sarebbe pronta ad affrontare un nuovo rapporto dopo la perdita delle persone più importanti della sua vita o forse perché Jeong Chan non è pronto ad avere una storia per la quale sia pronto a lottare; senza sforzi però entrambe rimangono uniti senza modificare il loro rapporto, il primo ad aiutare Shin-ae a inizio film è proprio Jeong Chan e continuerà a farlo fino alla fine sorreggendole lo specchio per aiutarla a tagliarsi i capelli nella scena finale.
Cosa mi ha lasciato questo film?
Vi ho pressapoco raccontato il film senza svelare troppo, ma come avrete capito è un film che lasciate molto turbati e che fa riflettere.
Cosa farei al posto di Shin-ae? Avrei il coraggio di concentrarmi su qualcosa così lontano da me? Quando cerca di far commettere adulterio, guardando il cielo dice “stai guardando?” rivolta a Dio, penso che quella sia una delle scene più strazianti di tutte, noi siamo abituati a film americani pieni di musiche e riprese spettacolari, qui ci troviamo davanti a un film che usa pochissimi frammenti musicali (tecnica tipica del regista e che troveremo anche in Poetry) e riprese fisse con la telecamera.
In un film “classico occidentale”, il ritrovamento del corpo di Jun sarebbe stato accompagnato da musica straziante e una madre urlante, qui invece abbiamo una musichetta neutra e una donna che con tutta tranquillità si avvicina al corpo del figlio; se in America (ma anche in Italia) la scivolata della donna sarebbe stata resa in maniera teatrale qui passa quasi in secondo piano.
Questo è uno dei tanti esempi e paragoni che si possono fare, lo stile dei registi asiatici è molto diverso da quello che troviamo nei film di casa nostra, si potrebbero fare numerosi esempi e paragoni con film Americani/Italiani ma non li farò perché snaturerebbe l’idea che il film vuole dare.
trailer in inglese:
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